Archive for the ‘Desolazioni’ Category

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97. E fu la notte, la notte per noi

7 aprile 2015

«Alla fiera del G8, con un po’ di copertura, i manifestanti la polizia torturò.

E venne De Gennaro, che si mangiò il manganello, che in questura Fini portò.
E venne il bastone, che picchiò il manifestante, che non morse nessuno, e De Gennaro il manganello si rimangiò.

E venne Amato, che nominò De Gennaro (capo della Polizia).
E venne Prodi, che nominò De Gennaro (commissario straordinario per i rifiuti in Campania).
E venne Monti, che nominò De Gennaro (sottosegretario con delega alla sicurezza).
E venne Letta, che nominò De Gennaro (presidente di Finmeccanica).

Alla fiera del G8, con un po’ di copertura, i manifestanti la polizia torturò.

E venne Strasburgo che spense De Gennaro che bruciò il bastone che picchiò il cane che morse il gatto, che giustificò la Diaz con una conferenza stampa vera e una molotov finta, con un Poliziotto che si strappò la divisa (e disse che era stato accoltellato, ma poi fu condannato).

Alla fiera del G8, con un po’ di copertura, i manifestanti la polizia torturò.

E poi venne Orfini che disse «oddio».
E poi venne la Serracchiani che disse «valuti in coscienza».
E poi venne Renzi che non disse nulla.
E poi arrivò Cantone che disse «non può pagare lui per tutti».

O tutti promossi o tutti bocciati. In questo caso tutti PROMOSSI.

Alla fiera della giustizia, per due soldi, una mano nuova a Giuseppe Azzolina non gliela renderanno mai (a Giuseppe la Polizia divaricò le dita della mano così tanto che gli squartò la pelle fino all’osso).»

(via  facebook)

Oggi hanno deciso che, quella volta, fu tortura. Lo sapevamo già tutti, l’abbiamo sempre saputo, lo sapevo perfino io, a tredici anni, quel giorno di estate di quattordici anni fa, ma oggi l’ovvio ci è stato confermato, e ci dicono perfino che dobbiamo esserne felici, che dobbiamo sentirci tutelati da chi, in Europa, vuole impedire che una cosa del genere succeda ancora.

Tutta questa vicenda, il pozzo nero che è stato Genova, continua ad essere il vero spartiacque “politico” della mia esistenza. Dopo Genova niente avrebbe più potuto essere come prima, per la giovane me-cittadina. Anche se, da parte delle istituzioni, ci fosse stata una reazione giusta, concreta, responsabile, definitiva, sarebbe stato impossibile tornare a fidarsi del tutto di questa nazione, della sua capacità di amministrarsi e di difendere gli uomini e le donne che ne fanno parte. Le cose, per di più, sono andate come sappiamo, e il naufragio della verità nel mare dell’omertà più desolante, e vergognosa è una colpa che è e rimarrà sempre imperdonabile, e di fronte a cui non ci sono parole.

In questo scenario di apocalisse inevitabile, l’unica cosa che possiamo fare è continuare a pensare a quelle ossa rotte e a quelle teste spaccate, a quella gente che, dopo, raccontava: «Noi, a Bolzaneto, eravamo tutti sicuri che in Italia ci fosse stato un colpo di Stato militare. Se esistesse ancora uno stato democratico, pensavamo, non potrebbero farci questo. Se sta succedendo, vuol dire che la democrazia non c’è più». Fuori da lì, invece, lo Stato c’era, saldo e intatto al suo posto. Lo Stato c’era e assisteva alla distruzione del suo significato senza fare una piega, anzi continuando impunemente a diffondere menzogne, parziali verità e ipocriti tentativi di fornire giustificazioni. Lo Stato c’era e continuava indisturbato la sua corsa, distogliendo lo sguardo dal sangue, dai denti spaccati e dalle manganellate, come se niente fosse accaduto. Certo della sua impunità, e del suo potere.
Oggi qualcuno ha decretato che quel che accadde quel giorno ha un nome. Ma oggi, ormai, questa etichetta non può più essere d’aiuto a nessuno.

Ogni volta che ripenso a Genova, mi vergogno di non esserci stata. Mi chiedo se avrei potuto esserci, mi chiedo cosa dovrei fare, ora, in quanto cittadina, di fronte a ciò che è stato, e mi chiedo se è normale non saper trovare alcuna risposta a queste domande.
Nel dubbio, allora, mi limito a risnocciolare il rosario di tutto ciò che so di quei giorni. Per tenermelo presente, per non dimenticare nemmeno un dettaglio, nemmeno uno scricchiolio di ossa che tremano. Perché la mia vergogna per ciò che è accaduto è il sentimento più nobile che sento di poter regalare, a chi fu torturato a Genova.
E anche se questo non cambia di una virgola le cose, coltivo ugualmente questa vergogna.  Perché anche in questo caso, «mi pare confusamente che, per ciò che è accaduto in Italia, qualcuno debba almeno soffrire».

 

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91. Il corpo dice tutto

1 aprile 2015

“Quando sei nato non puoi più nasconderti” recita il titolo di un vecchio film, e nonostante la sua stupidità da sentenza lapidaria questa frase va a colpire il nucleo di qualcosa che è problematico e denso, qualcosa che ha a che vedere con nervi scoperti e con cicatrici che, anno dopo anno, diventano sempre più trasparenti, ma che non scompaiono mai del tutto dalla memoria e dal retrobottega della nostra coscienza.
Perché, che lo vogliamo o no, un corpo ce l’abbiamo tutti, e dobbiamo trascinarlo insieme a noi nella buona e nella cattiva sorte, sotto gli occhi del mondo intero. Dopo la perdita dell’innocenza originaria, non possiamo più sperare di essere al riparo dallo sguardo dei nostri simili, non possiamo più invocare alcuna sospensione del giudizio, non possiamo più fingere di non avere uno spessore, di non occupare uno spazio. Dal secondo in cui siamo nati (e in alcuni casi anche da prima: le ecografie da tempo non sono più un tabù) non possiamo più illuderci che il mondo non ci veda: lo sguardo dell’umanità sta lì a soppesarci senza tregua, in ogni senso, e sarebbe bello ma illusorio poter confidare nella sua comprensione, nella sua compassione, nella sua tenerezza.

Questo pensavo, questa sera, seduta al tavolino di un bar. Attorno a me c’erano tante persone intelligenti e sensibili, preparate e rilassate, che parlavano senza impegno di conoscenti comuni, amici, colleghi di lavoro, bevendo una birretta mentre attorno passavano bambini in bicicletta e signori di mezz’età con cani al guinzaglio. La leggerezza della sera di aprile, la dolcezza di questo scenario quasi da cartolina, si sono incrinate irreparabilmente, però, quando il discorso è caduto su A.
A. è una ragazza che, nell’ultimo anno, ha perso parecchi chili, e che ora si aggira tra gli uffici con la pelle del viso che le tira sugli zigomi e con l’aria fragile ai limiti dell’implosione che ha, sempre, chi mangia troppo poco, e quindi deve concentrare tutte le sue energie nello sforzo costante di mantenersi dritto in piedi.
A. è, da sempre, una presenza un po’ anomala, bizzarra e sopra le righe, rispetto agli standard dell’azienda, ma la sua attuale discesa verso la magrezza estrema è, ugualmente, sotto gli occhi di tutti. E tutti – l’ho realizzato con la chiarezza con cui si riceve uno schiaffo, questa sera – sono convinti di capire questa sua deriva, hanno la certezza di saperla catalogare, di poterla giudicare con parole che stanno sospese sul crinale sottile che divide la pena dalla disapprovazione. Perché, in fondo, se A. è arrivata a questo punto è solo perché se l’è voluta. Se la mascella le sporge in modo così innaturale dalla faccia, se non ha più carne sopra le ossa e, in pausa, si siede nel piazzale raccogliendosi le ginocchia al petto, perché ha freddo anche sotto il sole, la colpa è solo sua.

La totale mancanza di delicatezza, da parte di quelle persone sensibili e per bene, nel parlare di una storia di cui nulla sanno, è l’emblema più evidente dell’impossibilità di difendersi dallo sguardo del mondo, della fine di ogni ipotesi di tenerezza possibile, del naufragio di ogni zona franca in cui potersi fermare a fare i conti con se stessi, al riparo dal giudizio altrui.
Gli occhi degli altri sezionano e soppesano, e non hanno pietà nel loro emettere sentenze. E questo dato di fatto, pur nella sua evidenza non poi così rivoluzionaria, ha cambiato il colore della mia serata e ha illuminato tanto passato e tanto futuro di una luce livida, minacciosa e un po’ imprevista.
Perché sotto i riflettori, senza scampo, siamo tutti. E tutti dobbiamo fare i conti con ciò che gli altri leggono dentro di noi, senza possibilità di poter sperare nemmeno in una briciola di tenerezza, di umiltà, di umana pietas.

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81. Il Processo

22 marzo 2015

Qualche mese fa, al lavoro, mi è capitato di leggere e impaginare un bel saggio – lucido, preciso, succinto: di meglio non si potrebbe chiedere – dedicato al tema del perdono e ai suoi indistricabili paradossi.
In quelle pagine, in mezzo a molte altre osservazioni interessanti, si faceva riferimento a un testo teatrale che non avevo mai sentito nominare, una strana e spaventosa tragedia che racconta la storia di un villaggio ebraico devastato da un pogrom, nel diciassettesimo secolo, e di tre cantori erranti che vi arrivano per caso, durante la festa di Purim, aspettandosi di trovare un pubblico disposto a guardarli recitare. Gli unici ebrei rimasti nel paese, però, sono un vecchio oste e sua figlia, disperati superstiti di quella tragedia che ha spazzato via la comunità e ha spezzato anche le loro piccole vite, lasciando solo il guscio vuoto di quel che erano stati.
Lì, in una notte piena di magie, di presagi e di minacce – perché, almeno a sentire il vecchio Pope ortodosso del villaggio, gli sterminatori stanno tornando per finire quel che hanno cominciato – viene messo in scena un macabro, terribile e umanissimo processo a Dio, che viene chiamato sul banco degli imputati perché risponda, se una risposta esiste, alle accuse che gli vengono rivolte dalle fiammeggianti parole dell’oste Berish.
Quel processo, tragico e ubriaco, avrà luogo ma non arriverà a sentenza: sarà un altro fuoco ad arrivare per primo, coronando nell’unico modo possibile la tragica sceneggiata di Purim recitata dai cantori e dal loro folle, lucidissimo ospite.

Oggi, in una domenica di nuvole, ho preso in mano il libro con la copertina gialla in cui è raccontata questa tragedia e ho letto la storia di Shamgorod, delle sue maschere, della sua accusa rivolta all’Altissimo e delle inevitabili conseguenze a cui quel grido conduce. E non c’era perdono possibile, nel mondo degli uomini, di fronte a questo macabro e surreale Processo.

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BERISH: Ha annientato la fiorente comunità di Shamgorod; ha seminato la morte […]. Se ci tiene a perseverare nelle sue vie, tanto peggio, che perseveri! Ma io, io non risponderò amen. Può schiacciarmi se vuole: io non reciterò il Kaddish. Può uccidermi, ucciderci tutti: io griderò che è lui il colpevole. […]

SAM: Veramente, taverniere, Dio vi benedice e voi l’ oltraggiate. Vi ha salvato e voi, voi lo addolorate!

BERISH: […] Se posso scegliere fra Dio e gli uomini, preferisco aver pietà degli uomini. Dio è grande: che si arrangi! Gli uomini non ne sono capaci.

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76. Un’altra storia

17 marzo 2015

Sulla parete del sottopassaggio che imbocco ogni giorno, due volte al giorno, per passare dall’altra parte dei binari della ferrovia, questa notte qualcuno ha disegnato qualcosa con una bomboletta nera.
A grandezza quasi naturale, spicca sul cemento ridipinto di bianco-grigetto l’immagine di un omino stilizzato, seminascosto da un enorme rettangolo su cui sta scritto un lapidario: “La storia non si fa la prossima volta. La prossima volta è un’altra storia”.

La frase non è originale – l’ha detta Makkox in una puntata di Gazebo, mi dicono – ma l’idea che, nonostante tutto quello che è accaduto e sta accadendo negli ultimi tempi nella mia città, ci sia ancora qualcuno che di notte si aggira sotto i binari per provare a regalare a quelli che passeranno cose del genere mi pare straordinariamente confortante, dolce, quasi struggente.
Perché è proprio vero che la prossima volta è un’altra storia e che, un giorno, di quello che sta accadendo oggi ci verrà chiesto conto, anche se noi per ora ci dedichiamo tenacemente all’arte di non pensarci.
Sarà bello, d’ora in poi, ricordarsene due volte al giorno, mattina e sera, per non perdere il contatto con la verità scomoda e sfuggente delle cose. Almeno finché la prossima mano di bianco-grigio comunale non interverrà a riportare l’ordine e il decoro, nei lindi sottopassaggi della nostra città.

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74. L’eterna lotta tra vero e fedeltà

15 marzo 2015

A dodici anni, subito prima di cadere nei marosi dell’adolescenza, attraversai un’intensa fase di amore profondo, furioso e abbacinante per la figura e l’opera di Ludwig van Beethoven.
Adoravo tutto, di quel personaggio pieno di poesia e di commovente grandezza: amavo la sua musica, ovviamente, ma soprattutto mi incantava l’uomo che immaginavo fosse stato, le sue follie, la sua solitudine, la sua fine così triste, romantica e disperata.
Presa nell’impeto di quel sentimento totale e trascinante, cercai di leggere tutto ciò che Beethoven aveva scritto in vita (le sue lettere, i quaderni di conversazione superstiti, il testamento di Heiligenstadt), e dopo averlo letto di mandarlo a memoria, per tenerlo sempre con me, come se quelle parole fossero l’unica cosa lasciatami in pegno da un amico fidato, come un gruzzolo di saggezza e di genio da custodire gelosamente e non perdere mai di vista.
Tra le molte cose imparate in quel periodo che ancora ricordo, c’è un breve aforisma (elementare in modo struggente, a ripensarci oggi. Allora, però, certo non la vedevo così) che recita: «Fare tutto il bene che si può / amare la libertà sopra ogni cosa / e, fosse anche per un trono, non tradire mai la verità».
Le parole di questo breve monito non mi sembravano solo belle: mi parevano proprio sacrosante. Le rigiravo in bocca pensando che, sì, quell’uomo che amavo tanto aveva proprio ragione: niente è più importante della verità. Tutto il resto – interesse, buon senso, sentimenti – viene dopo: la prima cosa è accettare di vedere le cose per come sono, la prima cosa è toccare la verità, che è una sfera liscia, inscalfibile, perfetta. Niente viene prima di lei, niente al mondo, mai, in nessun caso. Quanto romantico, adolescenziale assolutismo, dentro questo pensiero.

Quella frasetta così elementare ha percorso, sottovoce, tutta la strada che ha trasformato la ragazzina che la imparò a memoria, tanto tempo fa, nella persona che sono adesso. Senza farsi notare ha plasmato la mia vita, nel bene e nel male, e nonostante la sua apparente insignificanza ha saputo essere una bussola a cui credevo non si potesse fare a meno di fare riferimento, se si voleva essere uomini integri, onesti, interi.
Finché oggi, nel bel mezzo di una sera nuvolosa, piena di pioggia che si preparava all’orizzonte, mi sono ritrovata a pensare che forse la fedeltà viene prima anche del mio amato, irrinunciabile “vero”. Essere fedeli a qualcosa – a un sentimento, a un’idea, a un qualunque legame tra uomini – forse è più importante anche della pretesa di mettere sempre in chiaro la realtà delle cose, e forse pur di restare fedeli a qualcosa o a qualcuno è giusto anche chiudere un occhio su ciò che è vero e immutabile (e che resta tale, a prescindere da noi). Forse la fedeltà vince la lotta sulla verità, dopotutto, se scegliamo di essere un po’ meno giudici pur di diventare un po’ più profondamente uomini.

Nel mezzo di questa sera nuvolosa mi sono sforzata di capire se questo cambio di prospettiva è troppo grande, per la mia vita. Mi sono chiesta se è possibile, arrivati a questo punto, cambiare idea a proposito di una cosa così radicale, così costitutiva di tutto quello che ho sempre pensato.
Sono rimasta lì, per un po’, a guardare l’eterna lotta tra vero e fedeltà e la loro incapacità di vincere l’una sull’altra, e mentre riflettevo – senza approdare a definitive soluzioni – sul loro sovrapporsi mi è sembrato di risentire lo stesso rimescolamento massiccio, imprendibile e grandioso, che non si può evitare di provare quando si sente, ad esempio, una musica come questa:

 

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73. Grosse colère

14 marzo 2015

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La rabbia è rossa, appiccicosa come gli spaghetti scotti e raccapricciante come il gesso che stride sulla lavagna.
La rabbia è inutile, stupida e scontrosa. Fa a pezzi il tuo camioncino più bello senza nemmeno rendersi conto di ciò che il suo gesto significa, e con la sua arroganza cieca calpesta tutto e tutti allo stesso modo, incapace com’è di vedere le differenze e di fermarsi a ragionare.
La rabbia è insensata e ardente, e a volte scappa fuori dalla bocca, come i segreti e le parolacce. Nei libri dei bambini la disegnano brutta come un gorilla rozzo e prepotente, e non è che la sua forma cambi molto, quando poi si cresce. La sua ottusità rimane la stessa, la sua bruciante forza distruttiva anche, e quando decide di prendere il sopravvento non c’è nulla che si possa fare per fermare il suo delirante decorso. Solo inseguirla, non perderla di vista, rifletterci sopra e provare a marcarla da vicino. Aspettando, mentre si cerca di non perdere la fiducia e di minimizzare i suoi danni, che la sua fiamma ipnotica finisca di bruciare.

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70. À bout de souffle

11 marzo 2015

Correvo.

Correvo fortissimo, schivando le buche e la ghiaia sparsa a bordo strada e tenendo gli occhi fissi sulla striscia bianca che separa la carreggiata dal fosso e pensando solo a pedalare, mentre le auto mi sfilavano vicino.

Correvo senza musica nelle orecchie, perché estrarre il lettore mp3 prima di salire in bici mi avrebbe fatto perdere un minuto e io un minuto da sprecare non l’avevo, se volevo almeno provare ad arrivare puntuale a una discussione di laurea provvidenzialmente fissata proprio alla fine del pomeriggio, all’orario perfetto per poterci andare nonostante ogni impedimento. A patto, chiaro, di correre un po’.

Correvo a perdifiato, schiantandomi dentro il vento contrario e pensando unicamente a filare via più veloce possibile, e in quella corsa senza paletti mi sembrava di essere nel pieno di un inseguimento, mi sembrava di dover dimostrare, con il mio delirio muscolare totalmente fine a se stesso, qualcosa a qualcuno.
Arrivata a destinazione ho capito il perché di quella sensazione, ed è stato chiaro che, anche se apparentemente stavo andando liberamente in un posto in cui volevo arrivare, in realtà mentre pedalavo stavo cercando di fuggire via dalla mia meta. Questa consapevolezza, però, è arrivata solo molto dopo, solo quando ho smesso di pedalare, ho legato la bici a un paletto e ho capito che quel che potevo dimostrare a me stessa l’avevo dimostrato, e che non importava niente se quasi nessuno, là fuori, avrebbe mai avuto nemmeno il più vago sentore di quella sfida segreta, di quello che cercavo di lasciarmi alle spalle con quella pedalata.
Tutto questo però, come dicevo, è venuto dopo. Finché correvo, esisteva solo la corsa, solo il lavoro dei muscoli e la loro determinazione a non mollare. E, così, mi sono ritrovata a pensare che l’esperienza un po’ infantile della corsa a perdifiato è in realtà dotata di una sua peculiare forma di grazia, e andrebbe coltivata e protetta con più cura di quanto si faccia normalmente, una volta diventati adulti.

Correre senza risparmio e senza buon senso, sfidando il mondo e le cose, è la ribellione più microscopica e gratuita, più incruenta e più silenziosa che si possa concepire. E anche se apparentemente questa rivolta non fa male a nessuno, il modo in cui batte il cuore sotto la gola, alla fine, dimostra chiaramente che l’ordine consueto delle cose è stato infranto, mentre i muscoli faticavano. E, a volte, già questo è sufficiente per poter sopportare tante, tante delle cose del mondo di fuori.

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61. Auto da fe’

2 marzo 2015

Stamattina, appena messo piede in ufficio, il mio collega F. ha risposto al mio innocuo e allegro «Buongiorno, come va?» con un lapidario «A dire la verità, proprio di merda. Ieri M. mi ha lasciato».
L’annuncio di questo addio ha gettato su tutta la giornata una coperta di angoscia e di tristezza palpabili e irremovibili. Perché, lo so, la gente si lascia e si prende da sempre, questo è chiaro, ma quando la scure della fine dell’amore cade così vicina è difficile non avere paura del suo potere distruttivo. È difficile non aver voglia di nascondersi sotto il tavolo, chiudere le finestre e tirare le tende, quando si vede la sua forza tremenda e sfavillante all’opera sulle vite degli altri. Intenta a masticarle per bene, senza dimenticarsi nemmeno un ossicino.
F.  ha affrontato la giornata lavorativa con la forza cieca e muta del suo orgoglio ferito e del suo shock non ancora assorbito, e a sera (tornato a casa? Ma come si fa a tornare a casa, dopo che ci si è lasciati? Ognuno cucina la cena per sé? Ognuno mangia le sue scatolette? Ognuno si lava i denti in un lavandino diverso?) mandava sms che dicevano «in qualsiasi modo vada a finire, io non mi lascerò andare alla deriva. E se lo faccio, gettatemi una scialuppa, oppure prendetemi a schiaffoni».
In tutto questo io, sentendomi come un personaggio di Nanni Moretti e non potendo far nulla per evitarlo, non potevo che restare sconvolta e incredula di fronte alla catastrofe quotidiana dell’amore che non riesce più a giustificare se stesso, non sa più crederci, crescersi, farsi largo nella selva del mondo. E pensavo alla forza enorme di questa distruzione. Alla sua energia bruciante che, se si potesse raccogliere, sarebbe certamente capace di alimentare il più inarrestabile auto da fe’ di tutti i tempi.

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55. Il tempo andato non ritornerà

24 febbraio 2015

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Questa bambina qui sopra si chiama Shokoria, e qualche giorno fa una scheggia di granata l’ha ferita alla testa, in Afghanistan. L’hanno portata all’ospedale di Emergency di Lashkar Gah, dove è stata operata e dove, adesso, pare si stia riprendendo: i medici che la curano dicono che ha ricominciato a mangiare e che, se la stuzzicano, ride perfino. Sperano tutti che la craniotomia d’urgenza che ha subito – e che le ha salvato la vita – non le procurerà danni sul lungo periodo, ma questo potrà dirlo solo il tempo. Per ora, almeno, ha avuto diritto a una possibilità di futuro, ed è viva oggi. E questa alla fine è l’unica cosa che conta davvero (in Afghanistan, ma non solo lì).

Sono incappata nella foto di Shokoria in questa sera piovosa, una di quelle sere in cui si girovaga nella rete senza meta, cercando solo qualche palliativo capace di far scivolare via il tempo il più velocemente possibile. Contro tutte le aspettative, invece, ho incontrato lei – ovviamente senza averla cercata – e il suo comparire inaspettato nella mia sera ha dato un significato tutto nuovo all’espressione “fuori scala”. Mi ha ricordato quanto sono risibili le nostre recriminazioni, quanto ridicole le nostre pretese. Mi ha ricordato che c’è qualcuno che, là fuori, fa cose realmente importanti, e che dal momento che questo qualcuno non sono certo io, forse è il caso di prendersi un po’ meno sul serio. Ma, soprattutto, mi ha ricordato che il tempo sprecato non ritorna, che i secondi di una sera inutile sono destinati a finire nel tritacarne del tempo e a morire senza lasciare traccia, e che questo scempio è un insulto alla mortalità, alla dignità umana, all’umano desiderio di pace e felicità.
Così, guardando questa bimba afghana con la testa fasciata, ho capito quale lusso sia lo sperpero del tempo, quanto sia criminale buttare all’aria i minuti senza riuscire a fare nemmeno il minuscolo sforzo di usarli per vivere davvero, con il carico di dignità, orgoglio e felicità che questo verbo reclama. Nella mia sera insignificante, Shokoria mi ha fatto provare vergogna di fronte alla tentazione – propria dei ricchi, dei colti, di chi non deve fare i conti con la sopravvivenza – dell’infelicità auto-indotta, e mi ha ricordato quanto sia facile caderci dentro, gettando nel grande falò di ciò che scorre preziosi, impagabili frammenti di tempo. Tempo che, dopo essere andato, di certo non ritornerà.

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51. I se vol ben

20 febbraio 2015

Esterno sera.
Arrivo sotto casa trafelata, sobbalzando sui ciottoli della strada, e lego la bici al paletto sotto il portico di fronte, elevando nel contempo al dio dei ladri il consueto mantra tipregofammelaritrovarequianchedomaniperfavoremiserve. Attraverso la strada cercando di non far cascare nessuna delle masserizie che mi sono tolta di dosso (il caschetto, i guanti grossi, la sciarpa-bis, i faretti della bici), raggiungo il portone e, un attimo prima di mettere la chiave nella toppa, dico a me stessa “Eddai, è venerdì, ce li siamo meritati”.
Torno dall’altra parte della strada e mi avvicino alla vetrina del negozio gastro-fighetto che sta di fronte alla Casa della Luce, una vecchia bottega-gastronomia-drogheria che sembra uscita dal cuore degli anni Cinquanta. Con i prezzi, però, ritarati sull’attuale disponibilità economica della signora impellicciata padovana media. Lancio un’occhiata al bancone. Ce li hanno.

Interno sera.
Entro nel tempio del salume, chiudendo piano alle mie spalle la porta, che è fatta di vetro sottile, con gli stipiti di metallo verniciato di bianco e uno sghiribizzo d’ottone a fare da maniglia. Dentro c’è un’altra cliente, evidentemente affezionata. Ha una pelliccia corta, fatta a giubbetto, e gli occhiali da sole sulla testa, l’aria cordiale di chi si sente a casa propria. Parla animatamente con uno dei due uomini dietro il bancone, che le dice tutto contento «lo go, lo go, glielo fasso veder!» e poi sparisce nel retrobottega, scostando una tenda fatta di fili sottili che scendono fin al suolo. Non faccio in tempo a dire all’altro: «Buonasera, vorrei una vaschetta di pomodori secchi per favore» che il primo ritorna, tenendo in mano un foto-album di nozze. Piccolo, discreto, moderno, di quelli con le foto stampate direttamente sulle pagine.
Esce da dietro il bancone, appoggia l’album sul congelatore dei surgelati, e comincia a mostralo alla signora impellicciata. «Ecco qua… Eh, sì, l’è ‘nda proprio tuto ben, tuto ben… Ecco, questa xe me moglie… E questa la mamma dello sposo…». La signora, educatamente, sfoglia l’album profondendosi in complimenti. Loda tutto, di quelle foto: la sposa, il suo vestito, i testimoni, la villa del rinfresco. «E anche lo sposo, che bel ragazzo!» commenta di fronte a un bel primo piano di un giovanotto con i capelli scuri e un fiore all’occhiello. Attimo di silenzio, poi il signore azzarda un «Sì… sì… par carità! Po’ però… a dire il vero… beh, no è proprio il me tipo, ecco. Però, cossa go da dir… lori i se vol ben…». La signora afferra al volo e cambia prontamente discorso continuando a sfogliare l’album, che tra l’altro è veramente piccolo e discreto. Proprio della lunghezza giusta per tenerlo nel retrobottega e mostrarlo, quando alla sera ormai in giro c’è poca gente, ai clienti più affezionati.
Pago i miei pomodori all’altro uomo con addosso il cappello e il camice bianco, ringrazio a mezza voce ed esco, tenendo tra le mani la mia brava vaschetta sigillata. Quando mi chiudo alla porta alle spalle, dalle parti del congelatore ferve ancora la discussione su quel matrimonio bellissimo, perfetto, da incorniciare, da favola, da sogno. Tranne per lo sgradevole incomodo costituito dalla presenza dello sposo, quella brutta persona, unico neo in quella giornata altrimenti inappuntabile.

Esterno, un po’ più sera.
Raggiungo il cestino più vicino, pochi metri oltre la porta, getto via lo scontrino della gastronomia e respiro a pieni polmoni, cercando di evitare che l’ondata di malinconia arrivi a travolgere me e gli incolpevoli pomodori secchi che ho in mano, e che mi dispiacerebbe proprio contaminare di brutti pensieri. Però, nonostante gli sforzi, non riesco a non pensare che la società è una cosa davvero, davvero incomprensibile e assurda, che il mondo è un luogo faticoso, che le persone sanno essere violente in modo subdolo e sottile, e che non c’è difesa di fronte a questo.
Mentre mi ripeto tutto questo attraverso la strada, apro il portone, salgo le scale ed entro a casa. E lì di colpo tutto si mette a correre veloce: ci sono cose da preparare, luci da accendere, bicchieri da riempire, c’è tutta la vita vera che continua a prescindere da tutto e che è pronta ad accoglierci e a scavare una nicchia fatta su misura per noi.
Ma resta, in sottofondo, il ricordo della cattiveria microscopica, gratuita e inesorabile a cui ho assistito, e di tutto ciò che sta nascosto dietro di lei. E mi dico che, di fronte a tutto questo, ancora una volta non si può fare altro che una sola cosa: volersi bene. Con buona pace dei matrimoni, dei loro album e di tutte le mani che li sfogliano, li analizzano e li giudicano.